Demenza: l’aiuto ai familiari

di Francesca Pisacreta

Chi si occupa di una persona con demenza si trova ad affrontare alti livelli di stress, a partire dalla diagnosi che spesso arriva dopo tempo dai primi sintomi e solo dopo averne osservato l’evoluzione nel tempo, una diagnosi per una patologia per cui al momento non esistono cure risolutive.

L’impatto sui familiari è enorme, comunemente riportano di sentirsi tristi, impotenti, impreparati e spaventati. Tali stati d’animo si accentuano quando il proprio caro inizia a manifestare comportamenti problematici che i familiari non sono pronti a gestire. 

Con l’avanzare della malattia possono infatti comparire: agitazione, irritabilità, apatia, disinibizione, comportamenti inappropriati, vagabondaggio, ansia, ma anche deliri e allucinazioni. 

Alcune delle situazioni che i familiari riportano con più frequenza sono il rifiuto da parte del malato di compiere le attività di igiene quotidiana, la ricerca continua di cibo anche dopo aver terminato il pasto o, al contrario, il rifiuto di mangiare, i tentativi di uscire di casa anche in piena notte, l’indossare indumenti non appropriati alla stagione in cui ci si trova, l’ agitazione improvvisa di cui è difficile individuare la causa e così via. 

Che cosa fare?

Nel caso in cui il familiare colpito da demenza si trovi a casa e non presso una struttura, è necessario essere preparati per assisterla nel modo corretto e, nel caso in cui sia affiancata da un caregiver esterno, bisogna assicurarsi che questi abbia una preparazione adeguata. Le associazioni per Alzheimer costituiscono un aiuto notevole per avere informazioni e contatti sul territorio, ma anche per entrare a far parte di una comunità che possa costituire un punto di riferimento.

Qual è l’aiuto che può dare lo psicologo?

Lo psicologo può agire su più dimensioni. Può intervenire sulla persona affetta da demenza se si trova in fase lieve e moderata valutando la possibilità e utilità di un intervento volto a rallentare il decadimento delle abilità cognitive e a migliorare il benessere, attraverso la Terapia di Stimolazione Cognitiva (CST).

In parallelo, lo psicologo lavora con i familiari ed i caregivers.

A quali bisogni può dare una risposta?

1. informazione

La prima dimensione su cui agisce è quella educativa, attraverso una adeguata informazione, attenta alle capacità di comprensione dei familiari, circa le caratteristiche della malattia, i sintomi ed i disturbi che si presentano nel tempo e sulla loro evoluzione, con l’obiettivo di mettere la famiglia nelle migliori condizioni per capire quanto avviene ed assumere decisioni in modo sereno e consapevole. Tale intervento può consistere in colloqui familiari individuali o in gruppi formativi in cui partecipano diversi familiari e caregiver. In quest’ultimo caso c’è anche la possibilità di confronto continuo con chi condivide la stessa situazione e le stesse problematiche, permettendo uno scambio di informazioni,  di consigli e di aiuto reciproco mediato da un esperto.

2. sostegno psicologico

I cambiamenti che la malattia porta con sè suscitano nei familiari diverse reazioni emotive, tra cui le più comuni sono la rabbia verso il malato, gli altri o se stessi, il senso di impotenza, di non efficacia personale, la colpa, la depressione.

Anche gli equilibri familiari possono venir meno con ripercussioni sui rapporti tra i diversi membri.

Lo psicologo propone quindi uno spazio di ascolto e di sostegno per il riconoscimento e l’elaborazione di tali emozioni, cercando di favorire la comunicazione all’interno della famiglia e di condurla verso un adattamento quanto più possibile positivo alle nuove condizioni di vita.

3. formazione

Infine l’intervento psicologico si propone di formare i familiari ed il caregiver.

In primo luogo vengono date indicazioni sulle attività che possono proporre al proprio caro, calibrandole sulla base dei suoi gusti, predisposizioni, ma anche delle sue difficoltà, riuscendo a coinvolgerlo senza forzarlo.

Vengono poi insegnate le strategie e le modalità appropriate per comunicare in modo corretto, come utilizzare un tono di voce adeguato e non eccessivamente alto, unire le richieste verbali ai gesti, stare attenti a non formulare frasi troppo complesse ma quanto più possibile brevi, modulare il contatto fisico in base alla condizione del malato, evitando un’eccessiva vicinanza se appare agitato e così via.

Anche nelle fasi avanzate della malattia le emozioni che la persona con demenza prova sono reali e in quanto tali vanno rispettate. Entrare in contatto con il malato non è semplice e spesso la frustrazione e l’alto livello di stress porta i familiari a reagire in modi che possono esacerbare i disturbi comportamentali.

Quindi parte della formazione è dedicata al come intercettare i bisogni che si celano dietro ad un comportamento disfunzionale, anche il più bizzarro e delirante e a rispondere nel modo corretto a tali bisogni. 

Un esempio pratico è la situazione in cui il malato appare affaccendato in attività senza scopo, come vagare per la casa e rovistare nei cassetti. Probabilmente ciò che lo spinge è la noia e la frustrazione di non sapere cosa fare. Il familiare può intercettare tale stato d’animo e proporre un’attività semplice e non frustrante che serva a farlo sentire utile e impegnato.

Abbiamo visto come la demenza sia una malattia che interessa l’intera famiglia per l’alto carico assistenziale che comporta ma anche per le ricadute a livello psicologico su chi si occupa del malato. I familiari ed i caregiver spesso si sentono soli in questo percorso. È necessario che i loro bisogni trovino risposta nei servizi sul territorio, che vengano indirizzati, sostenuti e guidati in ogni fase. Lo psicologo con una formazione in neuropsicologia costituisce parte di tale risposta e oltre all’intervento sul malato, accoglie la domanda di informazione, sostegno e formazione dei familiari e dei caregiver.

articolo da Hafricah.net, 10 gennaio 2017

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